Echi, Racconto Horror

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Andrea944
view post Posted on 22/6/2013, 22:23




Echi
Mi sveglio di colpo dopo una notte angosciosa, piena d’incubi e demoni corvini che offuscano i bei ricordi. Non riesco ancora a ricordare quand’è stata l’ultima volta che mi sono fatto una bella dormita. È ironica la cosa. Penso fra me e me. Di solito i miei sogni erano colmi di gioia, bei ricordi che trattavano della mia famiglia, di mia moglie e dei miei bambini, poi tutto cambiò… Dopo quel dannato incidente tutta la mia vita divenne diversa, come se la stessa mi privasse di ogni singola goccia di linfa vitale.
Lasciandomi inerte e distrutto con un pendolo sopra la mia schiena che paziente aspettava che io tirassi la corda per farlo cadere, al fine di placare la mia pseudo sofferenza. Eppure vado ancora avanti, sopravvivo, lavoro, mangio e bevo. Un circolo vizioso di azioni normali, atti futili secondo il mio punto di vista, perché consumo e basta. Dovevo essere io a morire, non loro. Mi alzo dal letto, sono ancora assopito, ma forse questo non è il termine giusto. È come se ad ogni passo la mia stessa persona emanasse un’aura scura e lugubre, intrisa di tristezza e dolore. Vado allo specchio della mia scrivania, oggi dovrò andare al Lion’s Brith Hotel, revisione e controllo della stanza n° 127. Questo è il mio lavoro, un dannatissimo impiego dove non sgobbo, un lavoro ben pagato, ma per cosa? Per dormire. Mi metto la mano sul volto, distrutto, osservo i miei capelli, un tempo erano folti e biondi. E ora…Ora non sono altro che simil sterpaglie di color bianco sporco. Le occhiaie non sono diminuite, anzi, il contrario. I sonniferi non servono a un cazzo. Penso mentre mi rivesto con lentezza.
Ci vorrà poco per arrivare a quell'hotel in centro. Mi rammento.
La valigia è già pronta, adesso però devo trovare le forze per assegnare un voto decente a questa topaia. Il mio sguardo è sempre uguale, quasi non mi riconosco, ho solo in testa i volti della mia famiglia, portatami via dalla mia stessa disattenzione. Solo le sigarette possono donarmi qualche secondo di pace nelle notti più tetre, negli spazi più angusti. Ed il pianto s’interrompe a quell'atto che spesso faccio tentando di lesionarmi interiormente, per avere poi una morte lunga e dolorosa. Per presentarmi al Brith, dovrò sicuramente vestirmi elegante, per questo ho optato per uno smoking nero con mocassini di egual colore, cravatta rossa ed ovviamente il mio classico cartellino con scritto il mio nome e le mie credenziali.
John Baker.
Per lo meno sono vestito bene, magro ed alto, so per certo che farò bella figura, a parte per lo sguardo, questo è ovvio. Mi guardano sempre tutti e spesso e volentieri hanno paura, dei miei occhi, della mia pelle così bianca simile a quella di un cadavere, secca come quella di un vecchio. Estraggo una sigaretta dal pacchetto che tengo sempre nella tasca destra della mia giacca e la metto sull'orecchio sinistro. Devo andare, il Lion’s mi aspetta, però prima, dovrò consegnare la scheda di valutazione appena fatta al direttore di questo misero hotel che spacciava per “tre stelle”. Col cavolo, tre stelle sarebbero la realizzazione di un sogno per i proprietari di questo schifo.
Per lo meno so ancora fare il mio lavoro, è il minimo, se non m’impegnassi almeno in questo sicuramente per la società stessa sarei un peso.
Ed i soldi che guadagno? Beh, io spendo solo soldi per il mio fumo, per il mio cibo e null'altro. Niente piaceri e frivolezze, non credo di meritarle. Prendo la borsa e la poggio vicino a questa dannata scrivania sgangherata, il fumo mi avvolge ed avvicino il posacenere estraendo nello stesso tempo un foglio di valutazione datomi dalla società per cui lavoro.
E mentre aspiro la penna inizia a scrivere.
E non posso dire molto a riguardo. Lugubre e sporca è la camera che mi hanno affibbiato come “ suite”. In realtà non è altro che un misero buco con un bagno sporco e malandato, un letto matrimoniale che sembra presentare dei buchi fatti da termiti o altro. Il pavimento è coperto da un tappeto color rosso porpora e con strane rifiniture in argento colorato. Due quadri sono presenti in questa stanza, uno è vicino alla finestra che mi propone un paesaggio privo di naturalezza, ma solo di case che si accatastano su altre case, che dire, è il tipico paesaggio Newyorkese. Macchine che di continuo viaggiano per queste dannate strade. Emettono forti rumori, non c’è un attimo di pace, clacson, imprecazioni da parte degli automobilisti più stressati, musica a tutto volume da quei poveri idioti che prendono tutto alla leggera. Tutto ciò mi sconforta, però, per lo meno il rumore mi tiene compagnia e sicuramente distoglie di poco la mia mente dagli aspri pensieri. I quadri della stanza sono semplici, quasi sembrano proporre un clima di “campagna”, in uno, quello vicino alla finestra, vi vedo dei campi di grano al crepuscolo, il tipo di pittura sembra dato alla meno peggio, non è stato fatto con meticolosità, ma forse è voluto.
Il secondo quadro invece riporta un vecchio contadino vestito con abiti umili che lavora la terra, il suo volto ricorda tanto il mio, devastato, abbattuto e triste. Seppur sembri felice nello stesso tempo in ciò che fa. A questa topaia posso dare al massimo un quattro, che equivale ad una stella. Non se la meriterebbero, tuttavia per lo meno la colazione è particolarmente buona e se a me piace, vuol dire che è davvero buona. Ho perso il senso del gusto da ormai troppo tempo, tutto ciò che assaggio si mischia al sapore del fumo, perde ogni cosa, è come masticare una sigaretta accesa, dolorosa per via del fuoco, amara per il tabacco.
Mi alzo e subito dopo portandomi appresso la scheda di valutazione, mi dirigo verso la reception dell’hotel. Non c’è nessuno quando arrivo, solo il direttore che mi lancia uno sguardo impaurito, lo vedo sudare, sento che è nervoso, riesco a percepire il sangue che gli scorre ad elevata velocità nelle vene. Il cuore gli batte forte. Eppure da un lato mi dispiace dargli questa scheda. Penso guardando il foglio. Non mi fa alcuna domanda, sta lì, dietro quella dannata scrivania e cerca di distogliere lo sguardo, alternandolo a delle leggere occhiate verso di me, come se volesse implorare pietà. È un uomo gracile, vestito di tutto punto, ma con un volto che pare narrare una storia di tristezza e delusione. Lo vedo tremare, non ce la faccio a dargli la scheda, non posso. Sarebbe del resto la prima volta che faccio una cosa del genere però. Sto fermo in quest’angusta sala, freddo ed impassibile, fissando la carta scritta, il silenzio pare una tenaglia che ci lega entrambi, ed ognuno sente cosa prova l’altro, un’empatia forzata che ci pone una situazione alquanto sgradevole.
-Allora signor Baker, ha…ha avuto un buon soggiorno qui da noi?- Mi chiede balbettante.
Tolgo lo sguardo dal foglio e lo fisso negli occhi, la sua paura è aumentata. I miei occhi, il mio sguardo privo di vita, non è altro che una pugnalata al cuore per questo poveraccio. Lui sa cosa ho scritto e non vede l’ora di piangere lacrime di disperazione.
-Si…Abbastanza…Adesso devo andare- Rispondo, riponendo nella manica della giacca la scheda.
Con suo grande stupore il direttore esce dalla sua postazione e mi viene in contro dicendomi che un taxi mi sta aspettando fuori dall'Hotel per portarmi al Lion’s.
Ringrazio con un freddo inchino e mi congedo attraverso quella scura volta appartenente alla topaia, dove ero rimasto fino ad ora. Alla mia uscita dal palazzo sento un po’ di fresco, niente di speciale, solo una lieve brezza che mi trapassa le ossa, davanti a me c’è il taxi che mi aspetta. L’uomo che lo guida non è altro che un messicano molto robusto. Fumatore incallito a quanto vedo. Penso mentre mi avvicino, guardando il sigaro che tiene nell'altra mano fuori dal finestrino.
-Hola Senor, passato un buon soggiorno?- Mi chiede sorridendomi mentre scende per mettere la mia borsa nel portabagagli.
Annuisco educatamente, non voglio rispondergli a parole, aggiungerei altro rumore inutile a quello già presente in questa nefasta strada. Macchine ruggenti che vanno ad estrema velocità, nel frattempo vedo i guidatori che s’insultano. Da questa visuale posso intravedere anche le finestre delle abitazioni. E vedo litigi in famiglie, televisioni accese. Non riesco a provare niente.
Sento solo rumore. Rumore, e null'altro.
Poco dopo il tassista messicano m’invita a salire. Accendo una sigaretta di marca Marlboro ed apro il finestrino appena seduto. L’odore dei sedili è nauseabondo, sporchi e pieni di ogni schifezza possibile. Eppure lui mi sorride, lo vedo che mi sorride dallo specchietto mentre guida per accompagnarmi a destinazione.
E durante il viaggio, continuo a chiedermi perché vado avanti così. Perché lo faccio?
A cosa serve tutto questo?
Eppure mi sforzo per darmi una dannata risposta, ma non la trovo. E so anche che la prossima camera che dovrò recensire sarà eguale a tutte le altre camere di un tre stelle. Perché è lì che vado, in un fottuttisimo hotel a tre stelle. Nulla di nuovo, solo un'altra camera, un nuovo letto, gli stessi incubi. Le strade che percorriamo sono tutte uguali, New York è come una griglia e ogni volta che svoltiamo, troviamo sempre gli stessi stupidi automobilisti che s’insultano fra loro, fast-food ogni tre metri.
La poca vegetazione morente è ormai limitata a qualche albero che a stento riesce a crescere in quei piccoli spazi a loro concessi.
Che schifo. Penso aspirando.
Ormai siamo arrivati, durante tutto il viaggio che è durato pressappoco una ventina di minuti, lo stesso tassista mi ha fissato con quegli occhi corvini e stanchi avvolti da quel caldo fumo, per ogni secondo. Davanti a noi vi è il Lion’s Hotel, come presupponevo, è a tre stelle ed ha la volta piena di addobbi vari, quest’Hotel da com’è strutturato ricorda molto l’antica Grecia. Le colonne tetre si prostrano a me, i cespugli che lambiscono alla struttura sono meticolosamente curati.
L’interno visto da qua presenta molte tende rosse come il sangue, avvolte da un aria di silenzio perpetuo. Il messicano uscendo dalla macchina prende il mio bagaglio e me lo consegna, da quanto ho capito, il taxi era già stato pagato. Un atto di buon cuore da un misero direttore di una topaia fatiscente. Quasi mi dispiace sapere che quando l’azienda riceverà la mia scheda a quell’hotel verrà assegnata solo una stella. Povero. Penso guardando l’asfalto nero della strada. Un ultimo sorriso da parte del mio losco accompagnatore poi egli si congeda ed io mi accingo ad addentrarmi in questo nuovo Hotel. Appena dentro subito un uomo molto secco e vestito elegantemente mi si presenta d’innanzi alle mie fosche e stanche pupille.
-Desidera?- Mi chiede osservandomi come se bramasse un pezzo di carne.
-Sono il signor Baker- Rispondo con tono freddo e impassibile.
-Ah…certo, la stavamo aspettando, la sua camera è la numero 127 ma questo credo che già lo sappia signor Baker.- Arguisce pulendosi gli occhiali con un fazzoletto.
-Mi dica solo a che piano è, domani stesso vi farò avere la valutazione- Rispondo porgendo lui la mano, in attesa delle chiavi della numero 127.
Sorride, quel suo dannato sorriso non mi piace ed è forse la pima volta che sono intimorito da un espressione facciale. Quasi mi ricorda me. Il volto distrutto dal tempo, quelle rughe, quei denti giallastri, il tutto unito da un aria assai fredda che avvolge la sua figura.
-Certo, mi segua prego, vuole una mano per il bagaglio?- Mi chiede, io rispondo che non ce n’è bisogno del resto ho solo uno zaino e non mi piace che la gente prenda la mia roba.
Dopo ciò il direttore si presta nell’accompagnarmi insistendo, tutto ciò mi da veramente fastidio ma so che devo solo sopportare e quindi mi arrendo. Nel camminare per la sala per andare all’ascensore, non do molta attenzione all’ambiente a me circostante, ormai tutti gli Hotel sono uguali, ma non le persone, difatti nel camminare nella sala le osservo. Come fantasmi piangenti nell’animo vagano con simil sorrisi per la sala, scherzando fra loro, guardando i volantini di New York, decidendo cosa fare.
Famiglie felici. Penso.
Eppure rammendo a me che nei loro animi non conoscono il dolore e vedo in loro, in ognuno di loro del marcio. Dal marito premuroso che si sbatte la donna delle pulizie quando a casa la moglie è mancante. E vedo i sorrisi ed i lamenti di quest’ultimi. I litigi che affiorano come ricordi fantasmi nella sala mostrandomi padri o mariti che picchiano con forza le consorti oppure gli stessi figli, facendo sì che io brami con tutto me stesso la loro morte. Arrivando all’ascensore nessuno ci accoglie, ho notato che in quest’Hotel hanno il vizio per il colore rosso porpora, dovunque lo trovo e questo mi rasserena per qualche istante. Il direttore preme sull’ottavo piano dell’Hotel, dove troverò la stanza 127, dove non ci sarà nulla di nuovo, dove avrò un'altra scheda da compilare ed un altro letto da iniziare ad i miei lugubri incubi. Un piccolo suono ci avvisa che siamo arrivati, il direttore per tutto tempo non ha proferito parola, lo sguardo è sempre stato fisso verso il vuoto, privo d’emozioni, quasi come me, impassibile. Neppure mi accompagna, mi da semplicemente la chiave ed io vengo costretto ad incamminarmi verso la mia nuova camera che si trova per giunta alla fine del corridoio.
Quando giungo a destinazione mi volto per qualche istante ed osservo il direttore con braccia incrociate che mi fissa nel momento che le porte automatiche si chiudano, lentamente. Ed un fremito mi coglie di sorpresa lungo la schiena, come mille lame di ghiaccio che mi provocano assidui brividi.
Poco dopo continuo il mio cammino ed apro la porta della mia stanza.
Mi addentro con scaltrezza ed osservo ogni singolo oggetto, mobile o simile.
È una stanza con tre camere, il bagno, un salotto ed una camera da letto. In quest’ultima, da dove io entro vi trovo un letto matrimoniale con accanto un vaso di fiori di campo. Un altro quadro sopra il letto di cui non riesco a capire bene il significato. Sembra un quadro astratto e policromatico, su ogni cuscino vi è stato messo un cioccolatino. Tra me e me sogghigno, tentano di addolcirmi. La camera da letto è molto semplice poiché è la tipica camera da Hotel Newyorkese, con una lampada accanto allo stesso giaciglio, posta su un mobiletto di castagno. Un telefono a fili lambisce la fine del matrimoniale, sopra un altro mobile che sembra tenere dentro di esso qualche coperta in più. Ed una piccola televisione attaccata al muro, proprio davanti a letto. Poso lo zaino e vado alla finestra, ce ne sono tre di queste da quel che ho intravisto. Una piccola in bagno, una in salotto e l’ultima proprio qui. Non rimango stupito al sapere che il panorama è lo stesso dell’Hotel precedente, quindi senza indugiare subito la chiudo e m’inoltro nel salotto. Sembra che questo non abbia nulla di particolare se non un piccolo divano con un altro telefono ed una radio. Un frigo bar con una lista accanto dei prezzi ed ovviamente due lampade. Apro il frigo e prendo una birra dal suo interno accompagnandola da una sigaretta di marca Marlboro rossa. Mi siedo sul divano cercando di riposarmi un po’, queste notti insonne sono tremende per la mia psiche e continuo a rivedere l’incidente, giorno dopo giorno.
Alterno la birra alla sigaretta, tutto ciò mi scombussola un po’, il fumo e l’alcool non vanno molto d’accordo se aggregati all’insonnia. Tuttavia è anche una punizione per me stesso. Esistono persone al mondo che si tagliano, altre che vendono il proprio corpo, io invece lo faccio così, con una birra gelata ed una sigaretta. Il silenzio regna sovrano fra queste anguste mura, un senso di oppressione mi trapassa le meningi. Questa camera è uguale a tutte le altre, già visto, già fatto. Penso tra me e me. Eppure c’è qualcosa di diverso che sento nell’aria, un qualcosa che non riesco ad esprimere e che stranamente riesce anche solo per pochi secondi a distogliere i miei pensieri dalla mia famiglia. Uno spiffero poco dopo fa alzare leggermente la tenda della finestra, un sibilo di strana natura a me sconosciuto che pare portatore di loschi eventi. Mi alzo e con la birra in mano e la sigaretta in bocca mi dirigo verso la finestra, chiudendola. Mi giro per tornare sul divano, ma ciò che noto appena mi volto è strano ed inspiegabile. Eppure credevo di aver preso una sola birra. Penso guardando una bottiglia chiusa posta sul mobiletto accanto al divano.
Incuriosito vi vado vicino e la prendo. Sembra normale, ma ricordo chiaramente di averne presa una. Sarà l’insonnia. Penso dando un senso alla situazione.
Faccio spallette, la prendo e mi dirigo verso il frigo, dopodiché la ripongo al suo interno.
Torno sul divano ma appena lo vedo, rimango sgomento.
Il cuore mi batte forte. Un'altra birra sul mobiletto con accanto un pacchetto di sigarette nuovo di marca Marlboro. Non posso fare altro che fissare.
A tutto c’è una spiegazione. Penso.
Evidentemente c’è qualcuno in camera. Sì, non c’è altra risposta. Appoggio la birra accanto a quella “nuova” e metto la sigaretta nel posacenere. Con passo calmo e vigile vado verso la camera da letto, ma appena vi arrivo sembra tutto a posto. Lo zaino è ancora lì, i cioccolatini pure. Se non per un dettaglio, un giornale che prima non c’era è stato posto al centro del mio letto. Deglutisco e vado verso quest’ultimo, lo guardo, ma non c’è niente, è bianco, sono solo dei foglio bianchi. Che sta succedendo? Mi chiedo. Mi siedo sul letto e comincio a ponderare su quali siano le possibili spiegazioni dei recenti avvenimenti. L’insonnia. Ma certo. Magari sto sognando, del resto non dormo bene da giorni. Oppure questo è un dormiveglia, tutto è plausibile se si parla di sogni. Poco dopo però uno strano rumore mi fa sobbalzare d’improvviso. È lo sciacquone del bagno. Allora è vero! C’è qualcuno. Penso. Corro verso il bagno, ma niente, non c’è nessuno, solo un cesso che fa scorrere l’acqua. Mi accascio alla fredda parete del bagno accanto al lavandino. Mettendomi le mani fra i capelli comincio a parlare da solo, dicendo che non è possibile. Sto sognando, non c’è nessuno. Non c’è nessuno. Poi l’imprevedibile, i rubinetti si accendono da soli e l’acqua scorre libera. Mi alzo di scatto e li chiudo, ma un altro suono prende la mia attenzione, proveniente dal salotto, come qualcosa che cade e si rompe.
Il cuore mi batte forte e mi chiedo quand’è che mi sveglierò, è solo un sogno, null’altro.
Una lampada è caduta a terra e si è rotta, la birra e le sigarette non ci sono più, qualcuno le ha portate via. Che sta succedendo qui?
-Che cazzo sta succedendo!?- Impreco mettendomi le mani fra i capelli.
-Mamma, mamma, dov’è papà?- Mio dio… Non può essere. Penso.
Dietro di me, sento questa piccola e dolce voce femminile.
Non ho il coraggio di guardare, ma voglio farlo. Appena mi volto desidero di non averlo mai fatto, è lei, Helen, mia figlia.
-Dov’è papà?- Chiede ancora, mi fissa eppure io sono davanti a lei. No, non è possibile, lei è morta, morta come mia moglie!
-Adesso arriva papà, sta tranquilla- Un'altra voce, non è possibile, che razza di sogno è mai questo? Così vivido, così reale…
E poi la vedo, non voglio crederci, è lei, mia moglie…E la vedo che consola la mia bimba che mi cerca. Ma io sono qui piccola mia, sono qui! Dico dentro di me.
Cerco di avvicinarla ma sembra che non mi veda…Che strano tutto ciò… Eppure la paura lentamente va sviando come nuvole reduci d’un tremendo temporale. E rimango sgomento al veder che la mia bimba continua ad invocare il mio nome e la mamma la rassicura.
Realizzo che tutto questo è un sogno. Chiudo gli occhi e prendo un sospiro.
-è solo un sogno, è solo un sogno, è solo un sogno- Ripeto come una litania mentre il cuore dopo così tanto tempo batte come non mai.
Apro gli occhi, non c’è più lei, né la madre…Mia moglie.
E la lampada è tornata a posto, non c’è più la birra, né il pacchetto di sigarette, solo il posacenere presenta un mozzicone di cicca mezza fumata. Mi alzo, il cuore torna al suo solito battito, calmo e quasi assente.
Il mio volto riassume quel vuoto di sempre ed al fine torno sul divano, riflettendo. Le pareti di questa camera stranamente mi opprimono, sembra tutto così irreale, strano. Eppure è l’unica camera dove mi sembra di riuscire a dormire, ma sento lo stesso la stanchezza che mi lacera gli occhi. Che a stento riesce a farmi stare in piedi. E riprendo un'altra sigaretta, però, prima che riesca ad accenderla il telefono squilla cogliendomi di sorpresa.
-Si?- Chiedo mentre accendo la cicca.
*Salve, è il direttore che le parla, volevo sapere di persona se aveva bisogno di qualcosa*
-No…Per adesso sto bene così- Rispondo.
Tentano di coccolarmi dunque. Penso fra me e me.
*Va bene Sig. Baker, se le serve qualcosa basta che ci chiami e noi le daremo ciò di cui necessita, buon soggiorno*
Attacco il telefono senza proferire parola, non ho voglia di parlare, c’è qualcosa in questa stanza che stranamente da un lato mi attira quanto dall’altro mi intimorisce. Eppure è una camera come le altre. Penso mentre mi dirigo verso la camera da letto.
Aspetta un attimo. Mi dico guardando il giornale.
Rimango sgomento, una scritta è apparsa sulla prima pagina. “ Ultime notizie, alle ore 9.34, il rinomato critico…” e poi il bianco. Sto ancora sognando dunque…
Dannazione. Dico dentro di me.
Cosa significa tutto questo? Cavolo, devo fare un’analisi della situazione. È strano per la prima volta mi sembra di spezzare la solita monotonia…tutto ciò è alquanto inquietante quanto nello stesso tempo eccitante. Era da così tanto tempo che non provavo il brivido…Seppur la vista di mia figlia e mia moglie mi abbia alquanto scossato…so per certo che nulla di quel che vedo è reale.
Almeno sto dormendo. Questo è forse un fattore positivo.
Butto il giornale sul mobiletto in fondo al letto ed aspiro dalla sigaretta. Anche questo fumo sembra reale, così nitido, così dolce quanto amaro. Fuori piove, sento la pioggia che batte sui vetri, le nuvole sono scure, è come se fosse notte. Ogni tanto un tuono echeggia fra le strade ma io non mi stupisco. Nello stesso momento però…Al nascere d’un tuono spesso mia figlia ritorna davanti a me, abbracciata a sua madre ed io sono qua, a fumare, guardandole, sapendo che è tutta illusione, bloccando i sentimenti. Uccidendomi lentamente col mio fumo. Un altro tuono si fa sentire ma questo è diverso, ho un sobbalzo ed un brivido mi sale per tutta la schiena però mia figlia non c’è, nemmeno mia moglie, bensì qualcosa di ancor più inaspettato. Orribile la visione quanto disgustosa. E vedo il sangue che scende da quella fessura sul muro, che sgorga senza sosta sporcando la moquette bianca d’un rosso acceso.
Ed una scritta compare al secondo tuono che fa nascere il fulmine. E quella scritta mi congela. “ Baker, ucciditi”.
Poso la cicca nel posacenere e mi struscio le mani sugli occhi, non può essere vero, il sogno diviene incubo. Un altro tuono.
-Cazzo!- Impreco.
-Oddio…No…No!- Urlo guardando le pareti, colme di scritte di sangue identiche alla prima.
“Baker, ucciditi!” Scritte in ogni angolo, senza seguire un ordine preciso. Ed il sangue continua a sgorgare dalle pareti della stanza. Le stesse opprimono la mia persona. E sento il buio che avanza imperterrito cavalcano i tuoni ed i fulmini.
Mia figlia appare di continuo, in ogni dove, trasparente come un fantasma in lacrime che cerca disperatamente la madre. Dalla disperazione mi metto le mani fra i capelli e tento di chiudere gli occhi. Mille voci mi trapassano le meningi sussurrandomi “ucciditi Baker! È solo colpa tua!” mentre mia moglie, dilaniata nel viso mi osserva con un ghigno sul volto.
Non è reale tutto questo, è solo un incubo, solo un fottuto incubo. Mi ripeto.
Riapro gli occhi.
Tutto è tornato normale, anche il giornale stranamente è sul letto, ma la cosa che mi sconforta è che sullo stesso un ulteriore scritta è apparsa. “Ultime notizie, alle ore 9.34, il rinomato critico di alberghi, che risponde al nome di…” Merda. Impreco.
Parla sicuramente di me. Sono io, lo so, me lo sento.
Ma cosa va significando tutto questo? Davvero sto sognando? Davvero sto dormendo? Un turbinio di domande assale la mia mente rendendola inerte e fragile. Basta, devo svegliarmi.
Nei sogni comandiamo noi. Me lo ripeto andando in bagno, quindi, se io mi uccido mi sveglierò. Mi rispondo prendendo una lametta da barba, situata sul lavandino.
Mi batte forte il cuore mentre tolgo la plastica, osservo le lame e con lentezza la poggio sul polso. Di scatto tiro all’indietro la lametta per tagliare la vena principale. Ma niente. Che diavolo è successo?
Osservo la lametta. Non è possibile. Penso guardando l’oggetto, che adesso è privo delle sue lame. Prima c’erano, ne ero sicuro. Mi guardo allo specchio, devastato mentalmente.
Non posso neppure svegliarmi.
-Ahh!- Urlo in preda alla disperazione.
Scappo in camera da letto, voglio uscire di qui. Mi ripeto.
Vado verso la porta, è lì, mi basterà aprirla.
Tento nell’aprire la porta ma niente, è chiusa a chiave.
-Aiutatemi!- Urlo cercando di aprirla, alternando i miei gesti con calci e pugni alla stessa. Ma non mi resta che fare altro se non accasciarmi all’uscio di quest’ultima con delle flebili lacrime agli occhi.
Mi metto una mano fra i capelli e cerco di riflettere, devo trovare un modo per uscire di qui, ma come? Come posso uscire? Mi chiedo.
-Ehi…- Una dolce voce mi chiama.
Alzo lo sguardo e la vedo, sul mio letto. Tutto ciò è irreale.
Il posto è cambiato, sono in una stanza di ospedale e mia moglie è sul letto, dilaniata in volto e con cicatrici ovunque.
Appena la vedo le lacrime vanno aumentando e mi butto verso di lei.
-Ehi…Tranquillo…- Mi dice con voce fioca.
-Io…Mi dispiace…Mi dispiace è tutta colpa mia…- Dico in preda alla disperazione, piangente sul suo letto bianco.
-Shh…Non è vero…Tranquillo.- Mi ripete dandomi delle carezze sulla guancia.
Continuo a piangere come un piccolo bambino che si è appena sbucciato il ginocchio, questo incubo diviene sempre più doloroso e la mia mente ormai è completamente caduta nelle mani dei ricordi.
-è solo colpa mia…Solo mia…perdonatemi vi prego…- Dico asciugandomi le lacrime.
Il suo volto è coperto da moltissime bende, solo gli occhi intrisi di sangue riesco a scrutare, pare che mi mandino segnali d’odio e d’amore nello stesso tempo. Mi guarda, mi tocca le guance con quelle mani distrutte e colme di ferite.
-Lo so che è colpa tua…- Cosa!? Penso alzando lo sguardo.
Mio dio no…L’incubo è ricominciato.
Si toglie le bende e mi mostra il volto cadaverico, i suoi occhi adesso sono intrisi di rabbia e di tristezza, la mascella distrutta. Il tutto accompagnato da pustole e ferite che non smettono di grondare sangue marcio.
-Io…Io-Dico balbettando.
-Tu ci hai uccise- Dice osservandomi con quegli occhi putrefatti.
-Io…Vi prego...vi prego-
-Sta zitto, ucciditi Baker! Ucciditi!- e la stanza diventa di vetro, le urla dei pazienti, le sento, dio salvami. Prego dentro di me.
E vedo mia moglie che ride come una forsennata mentre la faccia si liquefae e sento i tuoni che ricominciano, le scritte di sangue tornano ed il giornale si prostra nuovamente davanti ai miei occhi con una nuova frase.
“Ultime notizie, alle ore 9.34, il rinomato critico di alberghi, che risponde al nome di John Baker è stato ritrovato morto nella stanza n° 127 del Lion’s Brith Hotel, pare che si sia impiccato, un altro caso di suicidio a New York” No…Non è vero, non è possibile.
Strappo il giornale e corro verso la porta, tirando un calcio riesco ad aprirla e davanti a me un lungo corridoio mi si presenta agli occhi, solo una luce intravedo, il resto è oscurità.
E corro mentre dietro di me sento solo risate ed urla, voci su voci che mi sussurrano di uccidermi. Andatevene! Urlo continuamente mettendomi le mani fra i capelli.
Ci sono quasi, sono quasi arrivato alla fine del corridoio, quest’ultimo sembra che sia infinito. Ma poi lo vedo, vedo la luce che mi mostra il mio futuro, che presenta a me stesso ciò che non avrei mai immaginato di vedere.
E vedo il bagno, uno sgabello ed una corda. Il mio volto sembra ansimante, freddo e privo di vita…
-Ahh!- Mi sveglio di colpo.
Un altro incubo penso guardandomi attorno, ormai non ricordo quasi niente dei miei sogni, dannazione, è da giorni che non riesco a dormire come si deve, guardo l’orologio, sono in ritardo e devo ancora scrivere la relazione di questa topaia, ma non credo che si meriterà più di una stella, mi spiace per il direttore ma devo essere scrupoloso.
Se non altro stanotte avrò da giudicare un'altra stanza che si trova in un Hotel chiamato Lion’s Brith, ma tanto lo so, sarà sicuramente una camera come tutte le altre…
 
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